Cruciani

Ci sarebbe da sorridere, se non fosse tutto molto serio e in buona parte pure atteso: due commercianti che vorrebbero falsare le partite e lamentano la truffa di chi, pur avendolo promesso, alla fine non ha falsato i risultati. O comunque non lo ha fatto abbastanza bene.

Pare la sceneggiatura di una commedia all’italiana condita da sigle comprensibili solo agli iniziati del diritto, espressioni di ossequio quasi medievale e formule da manuale di giurisprudenza.

Certamente non farina del sacco di Cruciani, che ogni giorno vanta la sua verza in romanaccio e si veste di tutto punto quando ha appuntamento in studio dal suo avvocato. Che poi è lo stesso di Trinca.

Goffredo Giorgi fa come fanno tutti i penalisti: si fa raccontare la vicenda, dà logica e cronologia a racconti senza capo e senza coda, li mette per scritto nella lingua della legge e scrive in calce cognome e nome dell’assistito.

Poi ritorna a convocare il suo cliente, mettendogli in mano la sua penna. E «firmi lì, sotto la data». E lui firma con fiducia, come a dire «dottò, anche se ha scritto il mio avvocato (e non famo finta che non lo sapemo), la storia che hai letto è proprio la mia. E se riesci, fai qualcosa. Roma, 1° marzo 1980. Massimo Cruciani».

Il Totonero

All’arrivo dell’incartamento, non c’è dubbio. Il plico va smistato ai dottori Monsurrò e Roselli, che si occupano di pallone e scommesse da gennaio.

Perché no, il fischio d’inizio dell’inchiesta che ha ribaltato il calcio non è datato 1° marzo e non è firmato Massimo Cruciani. E neppure Arnaldo Trinca.

Era il 18 gennaio 1980 quando Giuliano Prasca, su “Paese Sera” aveva per primo denunciato una serie di vertiginose puntate su alcune specifiche partite.

Ma per leggere da oggi la storia di allora, è indispensabile fare un ulteriore passo indietro e parlar di Totonero.

Riguardo al gioco del pallone, che tanti ancora chiamavano futbol – all’inglese – il confine della scommessa consentita si chiamava Totocalcio. Un elenco di tredici partite su un biglietto da ritirare al bar o dal tabacchino. Le otto di serie A e poi altre cinque delle categorie appena inferiori.

Si giocava scrivendo a penna 1, X o 2 nei riquadri prestampati. Si vinceva indovinando almeno 12 risultati. Si divideva con lo Stato. Tutto il resto era illegale.

Illegale ma drammaticamente normale. Perché non c’era luogo di lavoro o ricreazione in cui non girassero quote clandestine che permettevano di scommettere su singole gare in modo assai più simile a ciò che oggi è consentito. Una maniera assai italiana per sentirsi più moderni.

Sembrava tutto più avvincente ed internazionale. Un pò come andare a giocare al Bingo in una base militare americana piuttosto che far rotolare fagioli crudi sulle cartelle della tombola di nonna. E pazienza se a gestire le giocate non erano gli ingiacchettati allibratori di una City ma gli invisibili emissari di una cosca sconosciuta.

A portare a casa la schedina parallela era tuo padre. Un polizotto in carriera senza troppi grilli per la testa o magari l’alto funzionario di una banca, cui la faceva avere un collega che a sua volta la riceveva da un amico.

Niente che nessuno avvertisse come più immorale di un’audiocassetta registrata dalla radio.

Tutto così normale che un giornalista con un pò d’iniziativa poteva arrivare a conoscere se vi fossero vincite importanti su una qualche gara.

E a Giuliano Prasca, l’iniziativa di sicuro non mancava.

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Continua…

Cesare Mariconda