Pelé

Agosto 2005.

Pelé, in viaggio promozionale in Europa per seguire i suoi affari, intrattiene una piacevole conversazione improvvisata con curiose rivelazioni sul suo passato di calciatore, a partire dalle origini del suo nome, passando per i consigli del padre fino a porre un occhio al Mondiale del 2006.

Guarda con nostalgia una vecchia foto. «È George?» chiede, indicando una recente foto di George Best.

«L’ho visto l’anno scorso e l’ho trovato molto deperito. Esattamente come Maradona. È molto triste tutto questo. Due enormi calciatori, ma guarda cosa succede a causa dell’alcool e della droga».

Al confronto Pelé sembra senza età. Il certificato segna la data di nascita di Edson Arantes do Nascimento il 23 ottobre 1940, ma guardarlo fare jogging su e giù per un magazzino abbandonato nei pressi della stazione dei treni di Berlino, sollevare sorridendo ragazze immagine per fare foto, scherzare, sempre pieno di energia, non dà l’idea di un uomo che viaggia verso la terza età.

Oggi è in Europa per consolidare un accordo di partnership con il gigante dell’abbigliamento sportivo Puma, suo fornitore ufficiale di divisa e scarpe da gioco nel suo eccellente Mondiale in Messico nel 1970.

La giusta occasione per scambiare quattro riflessioni su passato, presente e futuro.

I primi calci

D: Ricordi la prima volta che hai giocato a pallone in vita tua?

R: Certamente. Avevo sei anni ed era il giorno del mio compleanno. A quel tempo mio padre giocava a calcio nella squadra di una piccola città vicino a San Paolo che si chiamava Bauru, ma era veramente difficile possedere un pallone di pelle perché erano molto costosi.

Così il giorno del mio compleanno, un compagno di squadra di mio padre, un uomo che si chiamava Sosa mi regalò un pallone di pelle e quella fu la prima volta che tirai calci ad un pallone “vero”. Prima noi usavamo calze imbottite di carta o pompelmi per giocare a pallone. Erano altri tempi. Oggi tu puoi andare a comprare palloni di pelle, di gomma, ogni genere di pallone, così oggi è possibile per tutti giocare con un pallone vero.

Ricordo inoltre che qualche anno dopo – forse avevo 12 o 13 anni – andammo ad allenarci vicino al campo dei professionisti e verso la fine della partita i giocatori qualche volta calciavano i palloni fuori dal terreno di gioco in modo tale che altri giocatori potessero prenderli, dal momento che ragazzi come noi non avevano i soldi per poter comprare i palloni.

Etimologia del nome

D: Edson Arantes do Nascimento è il tuo nome. Fu accorciato in Pelé per guadagnare tempo nel firmare autografi?

R: No no – sebbene sia in grado di scrivere il mio nome per intero, anche se ci vuole un giorno – Pelé fu il mio soprannome fin da quando andavo a scuola a San Paolo. Non so perché. I miei compagni iniziarono a chiamarmi così e io diventavo matto.

Litigavo spesso con loro per via di questo soprannome. Avevo cinque anni e mi sentivo frustrato. Dicevo «Il mio nome è Edson» – mio padre mi diede questo nome in onore di Thomas Edison, prolifico inventore americano che era un nome molto popolare all’epoca.

Così iniziai a litigare con i miei compagni e probabilmente vista la mia reazione continuarono a chiamarmi Pelé per infastidirmi: «Hey Pelé, Hey Pelé». Era un continuo.

Ma ora penso che fu una cosa buona, perché era un nome breve – quattro lettere – e il mondo intero non avrebbe fatto fatica ad impararlo. Penso che quel nome fu un dono di Dio.

Il migliore di tutti

D: Ci fu un momento in cui capisti che stavi per diventare il migliore calciatore del mondo più di chiunque altro prima di te?

R: In realtà non l’ho mai capito. Non ci fu un momento preciso. Mio padre era un calciatore a San Paolo e tutti lo conoscevano, così all’inizio io ero solo il figlio di Dondinho.

Quando raggiunsi 13 – 14 anni, la gente iniziò ad accorgersi di me dicendo «Oh, il figlio di Dondinho è un bel giocatore», ma non «Pelé è un bel giocatore». Poi quando compii 16 anni un amico di mio padre, un calciatore di nome Valdemar de Brito, mi portò ad un provino del Santos e dopo una settimana mi dissero «Ok ti prendiamo, firmerai e starai con noi».

Fu allora che mi resi conto che forse ero abbastanza bravo, perché il Santos era considerata una grande società. Ma non ebbi idea di come sarebbe stata la mia vita dopo quel giorno.

Non ebbi tempo per dire «Ce l’ho fatta». A 16 anni giocai la mia prima partita con il Santos ed esattamente un mese dopo il mio debutto fui convocato in nazionale.

La mia prima partita fu contro l’Argentina, al Maracanà e segnai un gol.

Poi a 17 anni fui selezionato per giocare la Coppa del Mondo e divenni il più giovane giocatore a vincere la Coppa del Mondo. Ma non mi fermai mai a dire «Sono bravo, sono il migliore».

Non mi sono mai soffermato a paragonarmi agli altri giocatori. Mio padre mi diceva sempre «Dio ti ha dato il dono di giocare a pallone – tu non hai bisogno di fare nulla perché è un dono di Dio. Ma ora hai il dovere di prepararti con cura, perché se raggiungi un buono stato di forma nessuno potrà fermarti».

Questo fu il grande insegnamento di mio padre. E questo mi ha portato a passare tutta la mia vita di atleta a cercare di avere sempre una buona forma.

D: Hai mai pagato per vedere una partita di calcio?

R: Mai. Quando ero ragazzo la squadra con cui giocava mio padre mi regalava i biglietti.

La vittoria dei Mondiali del ’58

D: Cosa ricordi della tua prima Coppa del Mondo del 1958? Eri in grado di capire cosa potesse significare?

R: Avevo 17 anni, ma ricordo tutto molto bene, non solo perché fu una bella manifestazione, ma anche perché fu la prima volta che viaggiavo fuori dal Brasile.

Ricordo che dopo la finale ero eccitatissimo perché avevo giocato e il Brasile aveva vinto e volevo disperatamente parlare con la mia famiglia e raccontare loro della partita, per sapere se l’avevano sentita, visto che all’epoca c’era solo la radio per poter seguire le partite.

Così, durante le interviste a fine gara, chiesi ai giornalisti della carta stampata e della televisione dove potessi trovare un telefono perché volevo parlare con mio padre. Ma non c’era nessun telefono e così dovetti aspettare il giorno successivo per parlare con la mia famiglia. Ricordo che dissi «Ciao papà siamo campioni», e questo mentre tutti gli altri giocatori stavano aspettando di poter parlare con le loro famiglie. Oggi se uno segna due gol corre verso la telecamera e dice «Mamma ho fatto due gol», ma all’epoca era molto diverso.

La rovesciata

D: Gli storici dicono che non sei stato tu l’inventore della rovesciata.

R: In Brasile molto prima di me c’era un giocatore che si chiamava Leonidas. Era un centravanti, giocava esattamente come me e fu il primo ad utilizzare il colpo della rovesciata.

Quando ero giovane provavo spesso quel colpo. Mi allenai parecchio per renderlo un buon colpo.

Ma non era una rarità. In Brasile tutti i ragazzini che giocano a pallone provano quel colpo.

Rovesciata Pelé

La parata di Banks

D: Cosa pensasti quando Gordon Banks parò, con il più grande intervento di tutti i tempi, il tuo colpo di testa, nella partita contro Inghilterra in Messico nel 1970?

R: Incredibile perché sono passati 35 anni, ma la gente continua a chiedermi di quell’intervento e non solo in Inghilterra, ma in tutto il mondo.

Come sai ho segnato tanti gol in Coppa del Mondo, ma la gente non li ricorda. Spesso prima delle partite viene mostrato questo intervento e io mi chiedo perché non mostrano invece i miei gol.

Ma d’altro canto, se fosse stato gol, probabilmente la gente lo avrebbe dimenticato come gli altri.

Pensavo fosse gol. Non so se l’hai vista, ma esiste una ripresa dove io salto per dire «Gol» … ma poi dissi «Oh…».

Fu un intervento fantastico e questo dimostra come la gente non ricordi solo i gol.

Il punto più basso

D: Quale fu il punto più basso della tua carriera?

R: Ho avuto tanti buoni periodi per cui non è facile. Potrei dirti l’infortunio contro il Portogallo nella Coppa del Mondo del 1966. Dopo le vittorie del 1958 e del 1962 avevamo una buona squadra e tutti i giocatori pensavano che avremmo rivinto la competizione. Quando mi feci male ed il Brasile fu eliminato fu molto triste. Dopo quell’episodio pensai che forse avrei potuto ritirarmi.

Ero depresso. Basta Coppe del Mondo. Tre erano abbastanza. Poi due anni dopo ripresi a prepararmi come si deve giocando nel Santos e così decisi di giocare anche la Coppa del Mondo del 1970. Così, se la Coppa del Mondo 1966 fu il momento più basso, mi diede comunque l’opportunità di svoltare, reagire e prepararmi per la sfida successiva che fu la migliore coppa che giocai. Mi ritirai quindi all’apice della forma.

D: Come hai fatto a sbagliare il gol dopo la finta portata al portiere dell’Uruguay nella partita di Coppa del Mondo nel 1970?

R: Pensavo che la palla sarebbe finita dietro al palo. La finta fu istantanea. Una questione di attimi. Nulla a cui pensi. Semplicemente una cosa che è successa. Una reazione istantanea.

Non so perché sbagliai. Quando saltai il portiere pensai di mettere la palla in rete appoggiandola, ma vidi il difensore rientrare molto velocemente così decisi di calciare immediatamente anche se sbilanciato, perché sapevo che mi avrebbe intercettato.

L’Europa

D: Ti sei mai pentito di non esserti trasferito in Europa? Hai mai ricevuto offerte in tal senso?

R: Ho avuto un sacco di offerte dall’Europa, ma stavo bene al Santos.

La differenza rispetto ad adesso è che non ti offrivano delle cifre di denaro a cui non potevi dire di no. Nella seconda parte della mia carriera il Real Madrid mi fece un’offerta eccellente e prima Giovanni Agnelli mi offrì delle compartecipazioni nella Fiat che stava aprendo degli stabilimenti in Brasile e voleva che promuovessi il loro prodotto.

Negli stessi anni tre/quattro giocatori si trasferirono in Europa. Da Altafini che passò dal Palmeiras al Milan a Juninho Botelho che passò dal Palmeiras alla Fiorentina e più tardi Didì e Vavà, ma io stavo bene al Santos. Rimango incuriosito rispetto al comportamento dei giocatori brasiliani oggi. Li vedo baciare lo stemma delle loro maglie dicendo «Amo il Manchester United».

Poi l’anno dopo vanno a giocare a Roma e li senti dire «Amo la Roma».

La realtà è che non amano il club, ma i soldi che sono l’unica cosa che li spinge a spostarsi. Tutto giusto. Però ad un certo punto devi decidere se ami di più i soldi o il club.

Il gol preferito

D: Hai segnato più di 1.000 gol. Hai un preferito?

R: La gente mi chiede spesso se ho un gol preferito. Difficile da dire, ma probabilmente il millesimo. Alcune persone mi chiedono perché non ho segnato quel gol in rovesciata o con un colpo di testa simile a quello segnato all’Italia nel 1970 ed invece su rigore. Dio ha voluto così.

Probabilmente Dio disse «Va bene. Fermiamo il gioco ed accertiamoci che tutti guardino».

Perché se avessi segnato in rovesciata o con un tiro da lontano magari qualcuno sarebbe stato intento a mangiare pop-corn o a parlare e l’avrebbe perso. Un rigore invece lo guardano tutti.

Quel gol fu importante per l’emozione che portò. Al Maracanà c’erano 125mila persone che acclamavano il mio nome. Mi tremavano le gambe. Quando devi tirare un rigore in una partita di Coppa del Mondo o in una partita importante, è sempre molto difficile. Il portiere diventa gigantesco e la porta piccolina. Era una grande responsabilità. Non potevo sbagliare.

Maradona

D: Per la stampa il tuo rapporto con Maradona è descritto come turbolento. Come vi comportate quando siete faccia a faccia?

R: Noi non abbiamo problemi. Sono i giornali che scrivono cose non vere. Qualche anno fa sono andato alla sua partita di addio. Fecero una grande festa per lui ed io ero presente.

Il problema è che Maradona ama tantissimo parlare e qualche volta i giornalisti travisano le sue parole, ma ti garantisco che non abbiamo problemi tra di noi. Non siamo amici in senso stretto, ma sono stato con lui in ottobre. La verità è che sono molto dispiaciuto per lui.

Diego è stato un calciatore formidabile, ma si è perso nella droga. Spero che ora con il ricovero possa tornare a fare una vita normale. Prego spesso per lui.

L’Africa

D: Tu dicesti che prima del 2000 una squadra africana avrebbe vinto il mondiale. Cosa manca alle squadre africane per eguagliare quelle europee e sudamericane? E le squadre asiatiche come le vedi?

R: Non dissi mai una cosa del genere. Dissi che l’Africa produce una grande quantità di giocatori forti e che quando vanno in Europa imparano, migliorano e diventano ancora più forti.

Dissi che le nazionali africane avevano delle possibilità, ma non dissi mai che avrebbero vinto.

Credo che Africa, Asia e Nord America siano sullo stesso livello. Nell’ultima Coppa del Mondo gli americani se avessero battuto la Germania avrebbero giocato la semifinale contro la Corea del Sud. Furono sfortunati a perdere. Le squadre asiatiche rispetto alle africane sono favorite.

Si tratta di nazioni molto organizzate anche fuori dal terreno di gioco con campionati competitivi, cosa che non trovi in Africa. La Nigeria ha una nazionale molto forte, ma non vincerà mai senza organizzazione.

Oltre il calciatore

D: Alcuni critici ritenevano che la tua interpretazione in Fuga per la Vittoria fosse degna del premio Oscar. Sei stato sorpreso a non essere stato nominato?

R: Sono solito dire che quando hai un buon coach, la tua performance migliora. E il mio coach era John Houston. Ma non ci aspettavamo di vincere l’Oscar.

Fu solo una bella cosa che facemmo insieme.

D: Perché non hai mai voluto fare il dirigente calcistico?

R: Prima di tutto perché ho giocato 35 anni. Appena dopo il ritiro con il Cosmos, ha promosso il calcio negli Sati Uniti. Poi mi sono fermato a riflettere.

Sono stato calciatore e potrei fare il coach, ma fare il coach è un lavoro più difficile che fare il calciatore. Avrei ricevuto un sacco di offerte, ma ho preferito essere ricordato come un buon calciatore, che come un coach mediocre. Ho ricevuto offerte da Brasile, Arabia, Africa, Europa ma ho sempre detto no, così come ho rinunciato a fare il Presidente della Fifa. Non avrei avuto più tempo.

D: Alcuni giornali motoristici hanno definito il tuo sventolare la bandiera a scacchi a Michael Schumacher nel Gran Premio del Brasile del 2002 il momento più imbarazzante della storia dell’automobilismo sportivo. Cosa successe?

R: Il Direttore di gara mi disse che quando le autovetture sarebbero arrivate all’ultimo giro mi avrebbe chiamato così potevo rilassarmi. All’ultimo giro vidi Schumacher e suo fratello apparire, ma il Direttore di gara non mi disse nulla.

Così, per non sbagliare, sono andato a prendere la bandiera e mentre mi approcciavo a sventolare il Direttore mi fermo e mi disse «Cosa fai?». Tempo di dirlo che i piloti erano passati. Gli dissi «Ora mi fermi? Era prima che dovevi farlo». Si è scusato. Così tirai fuori la bandiera, ma erano già passati da un secondo o due.

D: Perché pensi di essere stato scelto in rappresentanza della campagna di disfunzione erettile e perché hai scelto di farne il testimonial?

R: Quando fui invitato a promuovere commercialmente il Viagra, ho accettato perché i medici della Pfizer sono le persone più educate del mondo. Volevano spiegare a tutto il mondo che questa non era una pillola da night club, ma una medicina per il cuore.

Un problema diffuso anche tra i giovani.

Volevo fare qualcosa di buono così ho scelto di pubblicizzare questa cosa. Ed è diventata famosa in tutto il mondo.

D: Quali sono i tuoi hobby fuori dal calcio?

R: In primis scrivere canzoni samba per i bambini. Oppure andare a pescare.

In Brasile abbiamo il mare, fiumi, laghi. Vicino a San Paolo ho una fattoria con vicino un lago dove posso pescare dei pesci particolari chiamati Pacù e Jaù. Quando viaggiavo con la squadra i miei compagni giocavano a carte o biliardo. Io prendevo la mia chitarra e scrivevo canzoni.

Ho scritto tante canzoni per bambini che presto registrerò su un cd con il mio amico il maestro El Julia. Finirò in ottobre e poi andrà in distribuzione.

Il Brasile

D: Riesci a prevedere il giorno in cui il campionato brasiliano sarà competitivo come i maggiori campionati europei?

R: Sfortunatamente no. Due/tre anni fa ero ministro dello sport. Portai avanti la mia battaglia con gli amministratori dei club. Se il Brasile avesse amministratori professionali, come in Europa, il Brasile non perderebbe una partita. Abbiamo la squadra migliore in campo, ma non fuori.

Esiste parecchia corruzione. Tu puoi vedere i problemi di club come Botafogo, Vasco da Gama, Flamengo. Il Flamengo è un club con la tifoseria più famosa del mondo ed è sull’orlo della bancarotta. Dobbiamo cambiare, ma ci vuole tempo prima che si diventi competitivi come in Europa.

D: Se dovessi decidere di andare a fare una vacanza in Brasile dove mi consiglieresti di andare per stare anche al sicuro?

R: Il Brasile è così grande che dipende da dove vai. Penso che se vai in Amazzonia vedrai qualcosa di speciale. Lì troverai una città importante che è Manaus ed è bellissima.

Il momento più bello

D: Quale è stato il momento della tua carriera che ti ha dato maggiore soddisfazione?

R: Sono stato un uomo fortunato perché ho avuto tanti momenti importanti, ma forse potrei estrapolare due momenti. La mia prima Coppa del Mondo e quella del 1970 quando ero già un giocatore maturo. A quel tempo il Brasile aveva grandi problemi con anche la giunta militare.

Avevamo addosso una pressione enorme per vincere la Coppa del Mondo, ma fortunatamente Dio ci ha voluto bene. Scelgo questi due momenti perché il primo era tutto una festa, mentre il secondo era tutto una responsabilità. Sono stati due momenti significativi.

Mondiali 2006

D: Chi saranno le due finaliste della Coppa del Mondo 2006 e chi vincerà?

R: Impossibile da dire. Guarda l’ultima Coppa del Mondo. Argentina e Francia erano due delle nazionali più forti e sono andate a casa subito nonostante si siano qualificate molto facilmente al torneo. La Francia addirittura ammessa di diritto. Il Brasile ha sofferto parecchio le qualificazioni, così come la Germania, ma alla fine fu questa la finale. Adesso è difficile da dire. Il Brasile ha la squadra migliore con due tre giocatori in ogni ruolo.

Anche Inghilterra e Italia hanno buone possibilità di fare bene, ma ti ripeto, sono valutazioni complesse. Il Brasile nel 1950 era la squadra migliore, ma alla fine perse la finale contro Uruguay. Per questo preferisco non fare pronostici.

Chi è il più forte?

D: Chi consideri il giocatore più forte al mondo oggi?

R: Non amo dare definizioni di questo tipo anche perché poi la cosa viene pubblicizzata ed un giocatore che viene ritenuto il migliore da Pelé ovviamente poi subisce una pressione enorme.

I giocatori migliori sono quelli che mostrano consistenza nel lasso di tempo di diversi anni. Per me Zidane è stato il giocatore più forte degli ultimi dieci anni. Ronaldinho è un gran bel giocatore. Ha colpi incredibili e gioca molto bene, ma lasciamolo crescere. Vediamo cosa fa tra tre o quattro anni.

D: Se dovessi prendere un giocatore del 2002 e metterlo nella formazione del 1970 chi prenderesti?

R: La squadra del 2002 aveva due/tre giocatori forti, ma noi eravamo tutti forti. Forse prenderei Ronaldo e poi Marcos. Noi nel 1970 non avevamo il portiere più forte. Si, Marcos lo prenderei.

D: Chi fu il miglior difensore che hai incontrato?

R: Molto difficile rispondere. Ho giocato contro moltissimi difensori forti. E mi marcava sempre il più forte della squadra avversaria. Quando giocavo contro la Germania avevo addosso Beckenbauer. Era fantastico, molto intelligente, difficile da battere. Contro Inghilterra c’era Bob. Bobby Moore era fantastico.

Per me fu il migliore in assoluto.

D: Chi è il più grande calciatore di tutti i tempi?

R: Pelé senza dubbio.

PILLOLE STATISTICHE DI SOCCERDATA

PELE’ IN ITALIA CONTRO LE SQUADRE ITALIANE

  • 26 le partite giocate (compreso un incontro del Santos contro una selezione di Genova)

  • 25 i gol segnati
  • L’Inter e la Roma sono le squadre incontrate più volte (5) e la Roma la più squadra più trafitta (5 gol fatti)
  • Il bilancio contro le squadre italiane è di 17 vittorie, 2 pareggi e 7 sconfitte

  • 13 le squadre italiane incontrate