Giuliano Prasca era uno di quei giornalisti che non hanno remore a sporcarsi le mani.

Nella politica come nello sport. Uomo di sinistra in un tempo alieno, quando l’etichetta di “comunista” non era ancora uno scomodo velo capace di oscurare ogni virtù dell’uomo che si nascondeva all’ombra del compagno.

Prasca, nel Partito, era una voce che contava: cooperative, circoscrizioni, fino agli uffici del Campidoglio da Assessore per la Giunta Argan. E soprattutto calcio: a lungo presidente di quell’UISP che del PCI era ganglio sportivo, proprio negli anni di Berlinguer e della questione morale.

E scriveva, soprattutto, perché prima ancora d’essere altro, Giuliano Prasca era giornalista. Meglio ancora, giornalista sportivo. Per l’Unità e per Paese Sera, fogli che poi erano più o meno la stessa cosa e la cui sede era nel medesimo palazzo del partito.

Opposizione, etica, cultura popolare, giornalismo, inchieste. Addendi che, sommati tra di loro, facevano di Giuliano Prasca il perfetto denunciante dei mali del pallone.

Ma anche la prudenza del callido politico, che imponeva di non farsi diretto accusatore.

Milan-Lazio

In quel 16 gennaio, Paese Sera pubblicò ciò che Prasca riteneva di conoscere di quel gioco di scommesse illegali che la gente ancora non chiamava Totonero: tante tasse non versate, troppe puntate su specifiche partite e parecchi risultati conquistati da chi si dava per spacciato.

Incroci e dinamiche sospette sulla via Roma-Milano, quando l’autostrada del Sole moriva a Roma Nord e virava sul raccordo, senza nessuna alternativa.

Prasca procedette con il condizionale di ogni espero opinionista senza usare nomi propri.

L’arte del dire nel non dire che appartiene ai migliori narratori, tuttavia, non difettava alla penna di Giuliano Prasca ed erano trascorsi appena dieci giorni dallo strano 2 a 1 del Milan sulla Lazio con doppietta di Stefano Chiodi, mal marcato da uno svogliato Manfredonia.

Stefano Chiodi

Tanta gente c’aveva preso in pieno. Roba da chiedersi se non ci fosse sotto una mano, o magari il piede di un calciatore: perché, d’altronde, tra i tanti che scommettono sul campionato non potrebbe starci pure qualcuno che quella gara l’ha giocata anche sul campo? E se così fosse, come poter escludere che quel piede la partita non l’avesse perfino cambiata, determinandone il risultato?

L’ha chiusa lì, Prasca, senza superare la linea del dubbio. Ma era tutto tanto logico Paese Sera venne ripreso da Il Giorno con illazioni dello stesso tipo.

Le scommesse

«I biscazzieri – scriveva il quotidiano milanese – accettano puntate anche sul risultato delle singole partite. Esempio: la vittoria dell’Ascoli, nella partita giocata domenica scorsa contro la Juventus, era data a dieci contro uno. Almeno quattro persone, residenti a Torino, hanno puntato cinque milioni a testa; ciascuno di loro ha vinto perciò cinquanta milioni», seguiva poi la soffiata vera, ed i «fondati motivi per ritenere che tali nomi siano rintracciabili sul libro-paga della Juve». Ancora una volta nessun nome, ma ormai il brusio si era fatto voce che in pochi giorni invase ogni testata.

In quel gennaio diffidente e sospettoso, venne presto il tempo in cui calciatori e dirigenti furono in obbligo a intervenire di rimando.

Gli anni Settanta erano lontani meno di un mese ed i Dioscuri del calcio nazionale erano ancora Mazzola e Rivera. Alessandro detto Sandro e Giovanni detto Gianni. Partiti da Piemonti differenti, incoronati sulle contrapposte sponde dei Navigli meneghini e in fine giunti alla scomoda staffetta messicana proprio al tempo in cui il regolamento del mondiale propose l’innovazione della sostituzione a gara in corso. Sandro e Gianni, così diversi tra di loro e così uguali nel negare che il calcioscommesse fosse un problema di chi lavora col pallone.

E dopo loro arrivarono un pò tutti e sfilarono davanti ai microfoni del tempo a sostenere di non sapere proprio nulla. Ogni volta che un reporter incontrava un calciatore, si finiva per parlare di schedine e allibratori.

Albertosi

Le risposte andavano dal «non capisco di che cosa parli» al più caustico «volete distruggere il pallone». Chi era munito di classe sorrideva in un «no comment» e tirava dritto, avviluppandosi nel cachemire.

Nient’altro.

Per lo meno fino al giorno dello strano incrocio tra un reporter ed il grande Ricky Albertosi. Cognome d’origine e nome da battaglia di un altro avanzo di leggenda che si è affacciato nel decennio con la maglia gialla da portiere del Milan e sul petto uno stemmino tricolore. Quello che anche all’estero chiamano scudetto fin da quando Gabriele D’Annunzio, nello spazio tra le guerre, si è inventato questo nome.

Enrico Albertosi era il portiere per antonomasia: quello a cui subito volgeva ogni pensiero all’ascolto della frase quasi fatta per cui “i portieri sono matti di natura”. Perché gli italici portieri, da vent’anni a quella parte, erano soltanto due persone: Dino Zoff e Ricky Albertosi. L’Alfa e l’Omega.

Zoff era il misurato tra i pali e nella vita. Uno che non lasciava niente allo spettacolo e a cui era dura davvero cavare una parola.

Rick Albertosi era il guascone da Pontremoli, Toscana. Uno da rotocalco, da cavalli e belle donne. Uno che amava la chiacchiera e la vita.

Aveva vinto la Coppa delle Coppe con la Fiorentina nel 1961, era stato protagonista nel Cagliari tricolore del 1970 di Gigi Riva e tanti altri e, dopo aver stretto le mani ad almeno quattro Presidenti, aveva festeggiato con il Milan il titolo campione d’Italia. Nel mezzo, appena un Europeo da vice-Dino e la finale dell’Azteca dall’inizio.

Albertosi si era presentato al nuovo decennio con due baffi da Clark Gable ed un alone da leggenda nazionale immune da ciò che segue al passar delle stagioni nei suoi primi quarant’anni.

Ricky Albertosi

Uno così, quando vede un semplice giornalista, crede di mangiarselo davvero e certo non teme di parlare in un microfono. Ma pensando di non dire proprio nulla, in quel frangente disse tanto e combinò un vero disastro: «Ammetto di aver puntato più volte su gare di calcio», e tutto scoppiò.

Nulla importa che poi abbia aggiunto «mai sul Milan». Perché il dubbio è gramigna che non si debella e si fa spazio in ogni fessura.

Il Milan del 1980 era Albertosi e Rivera, sopra tutti. Ancora insieme, come fu dieci anni prima dall’altra parte dell’Atlantico a bordo del loro sogno di superare Pelé. Come in quel fermo immagine in bianco e nero in cui Rivera si strugge contro un palo poco prima abbandonato e Albertosi, alle sue spalle, pare dirgli «come, Gianni?». E in mezzo a loro il piccolo Gerd Müller, riverso sul terreno con un braccio che si alza.

E poi Gianni che rimedia poco dopo.

Continua

Cesare Mariconda