Ricky e Gianni

Una vita insieme. Uniti da due maglie che ne hanno scandito gli incroci, una azzurra e l’altra a strisce verticali rossonere. Ricky e Gianni, separati da caratteri antitetici che ne facevano intravvedere i tratti dei reciproci futuri: Enrico da imputato di processo per truffa e Giovanni da viceministro della Repubblica Italiana.

Il Gianni Rivera del 1980 era uomo affascinante che annodava la cravatta ogni mattina per recarsi a lavorare come dirigente del suo Milan. L’Albertosi della propria quarta decade di calcio professionistico aveva il capello nero lungo e sul campo non si preoccupava di sporcare di fango la divisa.

Ricky era del ’39. Gianni nacque nel ’43.

Assai strano sarà stato di sicuro, per il portiere-moschettiere, sentirsi dipendente di colui che aveva conosciuto ragazzino ed oggi era il vicepresidente del suo club. E Rivera si mostrò fin da subito capace di mostrare quel rigore che alla gente piace tanto. La sua erre moscia suonava tonante quando espose con fermezza il proprio approccio alle fresche insinuazioni: se al Milan c’è chi scommette, non mancheranno i provvedimenti.

Ricky Albertosi reagì d’istinto, come se quello del vecchio compagno fosse un calcio di rigore: «Non me ne frega nulla – affermò senza mezza misura – se sono la rovina del Milan è giusto che mi caccino fuori. Per fare contento quello bisognerebbe vincere sempre. Ad ogni modo, al Milan, la formazione la fa Giacomini e non Rivera».

messico 70

Sarebbe potuto anche bastare per avere il pandemonio.

Ma poi venne il turno di Giordano.

Bruno Giordano

Giordano Bruno. Anzi Bruno Giordano, onde evitare confusioni tra condanne romane.

Ventitre anni e l’etichetta di successore di Chinaglia, nazionale italiano e capocannoniere in carica del torneo, con l’enormità di diciannove reti segnate nel campionato precedente. Meglio perfino del grande Paolo Rossi, con cui concorreva in nazionale per il ruolo di centravanti in vista degli incombenti europei casalinghi.

Dal ritiro dell’under 21, Giordano fece sapere quello che pensava e fece capire che anche lui non disdegnava di scommettere sul calcio. Lasciò intendere persino che non fosse il solo calciatore a farlo: «che ci sia gente tra noi che scommette sulle partite non è una novità, ma che certi giocatori arrivino a scommettere contro se stessi mi pare veramente troppo. Al massimo punti sulla tua vittoria o su un’altra partita che non ti riguarda».

Un altro scricchiolio in quel mondo che appena qualche settimana prima era per tutti un pianeta di ragazzi che giocavano con una palla: di punto in bianco mostrava se stesso come un torbido scantinato di contrabbandieri interessati alle banconote più che ad alzare le braccia per un gol.

Tollerabile, se a parlare di quel circo fossero stati attoruncoli e figuranti, ma adesso le parole appartenevano ad Albertosi e Giordano. Milano e Roma. Portiere e punta di primo livello. Passato, presente e futuro della nazionale azzurra. La sintesi del sistema calcio al suo massimo livello.

Roba da muovere le Procure.

E le Procure si mossero davvero, negli ultimi giorni dello strano gennaio 1980.

giordano

Le Procure

A Milano, il dottor Giovanni Perrotti timidamente indagò sull’art. 718 del codice penale. Gioco d’azzardo. Piccolo fatto contravvenzionale, come si sogliono definire in diritto i reati minori. Inseguito dai cronisti si voltò e fece chiarezza: «non è mia competenza fare accertamenti su quanto avrebbero fatto alcuni calciatori». Poca roba.

E non molta pure a Roma, quanto meno in apparenza.

A Piazzale Clodo, il Procuratore Capo Di Matteo sfogliava i ritagli di giornale accatastati in cartoncino formato A3 ripiegato a metà. E i suoi occhi non lasciavano trasparire troppe ambizioni. Era uno di quei fascicoli contro nessuno, che Giudici e Avvocati chiamano «K» che sta a significare «riguardanti fatti non costituenti di notizia di reato».

Letto Paese Sera, il dottor Di Matteo convocò Prasca a piazzale Clodio, interrogò la Guardia di Finanza sul fenomeno del Totonero. E parlò con il Collega De Biase, che di mestiere faceva il Procuratore Sportivo e che anche lui voleva vederci chiaro. Insieme trovarono forse un qualcosa che alla stampa non dissero.

Il 24 gennaio la Stampa scriveva da Roma:

«Per ora è niente più che una voce, ma i suoi riflessi potrebbero essere clamorosi: a confermarla, nei prossimi giorni i giudici chiameranno due giornalisti di un quotidiano milanese.

Riguarda un tentativo di corruzione (che sarebbe corredato da nomi, circostanze, date e cifre) compiuto – si dice – qualche settimana fa durante la trasferta a Milano di una squadra di calcio romana. Alla vigilia dell’incontro raccontano nell’albergo in cui alloggiavano i calciatori della compagine ospite – si era presentato un misterioso personaggio che aveva avvicinato un giovane calciatore prima con offerte, poi con minacce.

La proposta sarebbe stata quella di convincere gli altri a lottare sul campo solo l’indispensabile, in cambio di sei milioni per calciatore che doveva fare da tramite e di una somma più consistente da dividere tra gli anziani della squadra».

Ancora troppo poco, ma era facile sommare. E nell’opinione pubblica non mancarono i riecheggi delle parole di Albertosi e di Giordano, e dei sospetti che Giuliano Prasca il giorno prima aveva compiutamente illustrato al Procuratore.

E poi scese il silenzio di febbraio.

Continua

Cesare Mariconda