Millenovecentottanta è una cifra che suona di futuro fin dai tempi di George Orwell, e negli anni Ottanta esiste solo ciò che scrivono i giornali. Per le strade si finisce a commentare le serate di Sanremo e ci si divide su quel giovane comico toscano che definisce “Wojtilate” le parole del Pontefice.

E poi silenzio. Troppo silenzio. Maledetto silenzio.

L’incontro con l’avvocato Giorgi

Nel silenzio romano della Sapienza, il 12 febbraio, le Brigate Rosse fecero fuori il vicepresidente del CSM Vittorio Bachelet all’uscita di lezione, davanti al volto sbigottito di una sua giovane assistente che si chiamava Rosy Bindi.

In quella stessa Roma e in quello stesso martedì suonò il campanello dello studio dell’avvocato Giorgi.

Quando la segretaria aprì la porta, vide due volti che da lì a breve le sarebbero divenuti familiari: «siamo Trinca e Cruciani e c’abbiamo appuntamento con l’avvocato».

Giorgi li fece entrare senza troppa anticamera e senza troppi convenevoli. Non girò intorno alla questione, esordì con un perentorio «dite pure», di quelli che convincono il cliente di aver trovato un difensore con le palle, capace di mettere in riga pure il giudice. Che poi, spesso gli avvocati più arroganti tra le mura degli studi, in udienza si dimostrano topolini fin dall’appello dei presenti.

Ma non era questo il caso.

L’avvocato penalista sa che ogni primo appuntamento può iniziare da una storia o da un biglietto. E Goffredo Giorgi, come ogni penalista d’esperienza, avrebbe preferito vedersi allungare un atto giudiziario, perché i documenti vanno al sodo a differenza della gente che non sa niente di diritto.

Ed anche perché gli atti della Procura sono sempre fonte di lavoro, mentre a volte le storielle non hanno nulla di penale e se va bene ci si cava 50mila lire di consulenza negativa.

Ed invece, il «dite pure» fu l’avvio di una storiaccia.

Truffatori truffati

Le voci dei due si alternavano e si incrociavano davanti allo sguardo allibito di Goffredo Giorgi, che ogni tanto chiedeva maggior ordine ma sostanzialmente lasciava fare.

«Giordano, Wilson e Manfredonia… Juventus, Milan e Fiorentina… milioni… Albertosi, Della Martira e Savoldi… altri milioni… e perfino Paolo Rossi». Non che quei dialetti sovrapposti lasciassero capire proprio bene l’accaduto, ma comunque roba da far venire il mal di testa.

«In definitiva, c’hanno solato» chiosò Trinca, che dei due venditori pareva quello più capace di ambientarsi in uno studio d’avvocato. «E mo’ noi vogliamo denunciarli».

«V’hanno solato, ma non è che voi stiate proprio a posto» fu il primo commento dell’avvocato Giorgi, che fin da subito pensò che su questa cosa gigantesca valeva la pena di lavorare nonostante i suoi clienti non fossero di certo quelli che un avvocato sogna di assistere. E non c’avevano manco due spicci da lasciare a fondo cassa.

Nonostante tutto, accettò il lavoro e si mise a lavorare di pensiero.

A fare il punto da legale, la situazione era molto chiara: due clienti, impresentabili a chiunque, che esigevano crediti per centinaia di milioni dalle celebrità del pallone. Si dicevano truffati, ma erano pur sempre pure loro truffatori, biscazzieri e senza dubbio un pò cialtroni: denunciare era l’ultima cosa da fare. E far saltare il mondo del pallone non avrebbe di per sé fatto piacere né a Trinca né a Cruciani, se la cosa non avesse fruttato al loro borsello per lo meno il rientro di qualche milioncino.

Con disarmante senso logico pensò che quando si vuole qualche cosa, il modo più facile è domandarla. E seppur Trinca e Cruciani già c’avessero pensato, certamente non avevano agito col l’acume che si conviene in questi casi. Ai giocatori di pallone non si dice “te denuncio”, ma si spiega con garbo come stanno le cose e si fa capire che si fa sul serio.

Che poi, a prendere sul serio Cruciani e Trinca, davvero ce ne vuole!

Da Giorgio Tosatti

È l’Italia del 1980. E una cosa è vera solo se la scrivono i giornali. Così serve un giornalista.

Il Corriere dello Sport, a Roma, è il calcio. Occorse – e non fu facile – procurarsi un incontro con il direttore, un giovane opinionista di successo di nome Giorgio Tosatti. Giornalista vero, figlio di quel Tosatti – Renato – che era morto per lavoro il 4 maggio del 1949, caduto con l’aereo su Superga insieme a tutto il Grande Torino.

Furono necessari un paio di colloqui preliminari con membri meno blasonati della redazione e si dovette anticipare di avere qualcosa da narrare in materia di calcio e di scommesse, qualcosa con dentro nomi e volti, qualcosa di più grande delle mezze frasi di gennaio trascritte dai giornali come fossero notizie vere.

E così, con la dovuta preparazione di ambo le parti, si venne all’agognato colloquio.

Cruciani e Trinca salutarono il direttore con goffa riverenza come due fedeli che domandano indulgenza al Santo Padre. Giorgi dissimulò una serenità che non aveva e strinse la mano del direttore fissandolo negli occhi e accennando il sorriso più adatto alla circostanza. Tosatti ricambiò con educazione e poca cura delle forme, pronto a dedicare la massima attenzione alle parole.

Trinca e Cruciani stettero in silenzio e si limitarono ad annuire ogni volta che veniva fatto un nome o narrato l’episodio di una gara. Giorgi sintetizzò la storia surreale dei due clienti, mentre Tosatti ascoltava senza prendere appunti se non con uno sforzo di pensiero tradito dall’inarcarsi delle sopracciglia.

Giorgi buttò fuori quel che ritenne giusto dire. E poi fu il turno di Tosatti. Parlarono a lungo, ma non se ne fece nulla perché a un giornalista come quello, prima ancora delle copie che può vendere, interessa che sia vero quel che scrive. E davanti aveva solo le parole di due illustri sconosciuti con la faccia da cialtroni.

Il Corriere non ruppe il silenzio di quel freddo febbraio e al buon Giorgi toccò pensare ad altro.

Nel mentre, di domenica si continuava a giocare il campionato.

Maurizio Montesi

Domenica 24 febbraio dell’80 era il giorno della sesta giornata di ritorno. Una domenica di emozioni come le altre, con l’Inter capolista che stracciò in casa il Catanzaro prenotando lo Scudetto, mentre Juve e Toro pareggiavano nel derby. Ad Ascoli Piceno, contro l’Ascoli sorpresa del torneo, scese in campo Rigamonti.

Antonio Rigamonti, anni 31, uno di quei portieri di provincia che traslocano in città per giocar poco e fare parte, da riserva, di una squadra titolata: da quattro anni era il dodici del Milan e fino a gennaio neppure sognava di sfilare la maglia ad Albertosi.

Il solito Ricky Albertosi, guascone da Pontremoli, per qualcuno il più grande portiere della storia dell’Italia, in quella stanca domenica d’inverno uscì dallo spogliatoio del Del Duca con il giaccone del suo Milan, si sedette in panca e mai più avrebbe giocato un’altra partita di livello.

Ufficialmente per scelta tecnica, ma con il maledetto sapore di una scommessa persa. L’ultima.

E pure a Cagliari era domenica, e al Sant’Elia giocava la Lazio. Maledetta domenica e maledetta pure la Lazio!

La Lazio dello scudetto del ’74, degli scazzi di Chinaglia e dei cattivi ragazzi della Roma bene. O almeno dei loro avanzi, che non vincevano come ai tempi di Maestrelli ma che camminavano per Roma come in un set di Stanley Kubrik.

Non c’era Giorgio – che viveva a New York – e non c’era Luciano, che era andato via per gioco.

Ucciso per sbaglio da un amico gioielliere, vittima di una burla a doppio taglio. E morire per scherzo poteva succedere a chiunque in quella Lazio di risse, armi, bevute e goliardiche cazzate.

Li chiamavano fascistelli, ma non lo erano davvero. Per lo meno, non tutti. Perché in quella Lazio svogliata e casinista si poteva venir dalla borgata e persino sentirsi di sinistra, purché non si rifiutassero feste, macchine di lusso, fotomodelle e serate in discoteca. E le cene alla Lampara, da Alvaro Trinca.

A vedere Maurizio Montesi e la sua faccia cupa da operaio, veniva da domandarsi che cosa facesse in mezzo a quella squadra di bellocci un pò svogliati. Montesi era pesante tra i leggeri, serio tra i frivoli, pensoso tra gli impulsivi e antipatico un pò a tutti per quel tono da sindacalista che si portava dietro pure in campo.

Parlava di argomenti sconosciuti ai calciatori e certamente a quelli della Lazio. Attivista di una sinistra extraparlamentare quando fuori dal parlamento si giocava con le bombe, già costretto ad emigrare ad Avellino perché – disse egli stesso – «per far carriera alla Lazio bisognava obbedire a Pino Wilson». E visto che Montesi non obbediva neppure a sua madre, Pino il capitano lo spedì giù giù in Irpinia.

Anche la stagione avellinese, per Montesi, non era andata molto bene per via di un’intervista scellerata a Lotta Continua in cui invitava i tifosi a preoccuparsi per le cose importanti e non pensare troppo al calcio. E così fu rispedito in braccio a Wilson. Per questo, con i suoi ventidue anni portati molto male, quella domenica d’inverno si presentò sul prato di Cagliari con la maglia azzurra della Lazio.

E quando nel primo pomeriggio del 24 febbraio cagliaritano saltarono tibia e perone di Maurizio Montesi, il calcio neppure se ne accorse. Massimo Briaschi e Bruno Giordano gioirono dei gol dell’1 a 1 e nessun compagno pensò di andare a recar visita a Montesi in ospedale.

Artemio Franchi

Per dirigere il gioco del pallone, nell’Italia di quegli anni, ci si doveva innanzi tutto saper muovere con logiche politiche. Se capitava, meglio saperne anche di calcio, ma non era indispensabile.

Artemio Franchi era molto di più di un normale dirigente. Nel 1980 rivestiva contemporaneamente i ruoli di presidente della FIGC e della UEFA, ed era perfino vicepresidente della FIFA.

Fiorentino di nascita e senese di adozione, nel tempo libero si dedicava al Palio ed era capitano della contrada della Torre.

Laureato in giurisprudenza, aveva guadagnato i suoi primi soldi veri da imprenditore negli idrocarburi e aveva scoperto il pallone alla presidenza della Fiorentina, vincendo uno Scudetto e perfino la prima Coppa delle Coppe, nel 1961. Portiere Ricky Albertosi: quello che scommetteva sui cavalli. Magari anche sul Palio.

E quando i giornali avevano iniziato a parlare, aveva difeso il calcio con vigore, perché il suo unico interesse – in questa storiaccia di scommesse clandestine – era che il calcio non ne avesse a risentire.

In definitiva, Artemio Franchi non era uno rispetto a cui le cose capitavano sotto il naso, senza che le lasciasse capitare. E la vicenda di Cruciani e Trinca non poteva che arrivare fino a lui.

Quando, nella precoce serata di fine febbraio, in via Allegri entrò il solito codazzo con l’avvocato Giorgi a precedere Trinca e Cruciani, Franchi non era il solo ad aspettarli. Con lui c’era il dottor De Biase e c’era pure Manin Carabba, braccio destro di quest’ultimo.

artemio franchi

Non era certo nei programmi del terzetto che il colloquio avvenisse sotto l’occhio di due lucidi inquirenti che, per quanto rappresentassero una giustizia di settore ed incapace di punirli, erano pur sempre magistrati. E come tali, ragionavano.

Il colloquio si fece teso fin da subito e Giorgi mostrò una non scontata capacità di reggere il confronto.

Il discorso era sempre lo stesso: Trinca e Cruciani – che in vero non aprirono mai la bocca se non per buttar fuori il fumo delle sigarette – volevano i loro soldi in cambio dei quali erano disposti a sparire nel nulla.

E che sparissero davvero sarebbe stata cosa buona per l’Artemio: loro con le loro storie zozze, capaci d’imbrattare tutto il calcio.

Come in una commedia di Gassman e Tognazzi, con magari anche Vianello, sua Eccellenza Artemio Franchi fissava dal suo scranno i due silenti convenuti con lo sguardo da cazzari. E si chiedeva se le parole che ascoltava fossero truffa, ricatto o richiesta un pò bislacca di mediar per la giustizia.

Mentendo fors’anche a sé stesso, si rispose che è assai onesto per un uomo che si reputa truffato ricercare il truffatore e tendergli la mano, come a dirgli: «mi ridai quello che m’hai sfilato, famo finta che non è successo proprio nulla e semo amici più de prima».

Il presidente si alzò in piedi e allargò il braccio destro verso la porta dell’ufficio, fissò l’avvocato e – con la perentorietà che era propria al suo blasone – disse «lasciatemi fare due pensieri sulla cosa e la richiamo».

Seguirono ore convulse e confuse.

Qualcuno dice che Carabba buttò giù una lista di sette nomi sacrificabili che si sarebbero potuti condannare senza sollevare troppa polvere.

Certamente squillò il telefono di casa Lenzini «Umberto, sono Artemio».

Umberto Lenzini, presidente della Lazio ascoltò tutto con garbato rispetto. Quando gli toccò di parlare fu lapidario: «non c’ho una lira». Argomento innanzi al quale non c’era altro che ci si potesse dire.

Un atto dopo era in linea con lo studio Giorgi: «non se ne fa nulla» disse l’Artemio. E «buona serata».

Giorgi socchiuse gli occhi per qualche istante, fece due sbuffi e urlò forte il nome della sua segretaria. La donna accorse con una penna a sfera ed un foglio di quelli che gli avvocati chiamano “uso bollo” (mentre per tutti sono i protocollo), poggiò la carta ad un angolo della grande scrivania ed il legale iniziò a dettare: «Ill.mo signor Procuratore, io sottoscritto Cruciani Massimo, nato a Roma…»

Cesare Mariconda